LECCE: IL TEMPO DI UN CAFFÈ 14 TAPPA
Pulp? Beat? Cult? La poesia di Maurizio Leo a Lecce. Dialoga con l’autore Annibale Gagliani giornalista e scrittore
L’8 ottobre 2018 ore 18,30 al Bar Astoria di Lecce in (Piazza Italia – adiacente Porta San Biagio) per la 14 tappa de Il Tempo di un Caffè ci sarà l’incontro con Maurizio Leo autore per i Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno dei libri in versi “Nella macchina di Neal tanto fumo dentro tanta nebbia fuori” di Maurizio Leo e “Ho dimenticato il cappotto di pannonero vecchio alla fermata del pesce”. Presenta l’autore il giornalista e scrittore Annibale Gagliani. Maurizio Leo è nato nel 1959, poeta di recente insignito del Premio Millenium è autore di diverse pubblicazioni di riliveo nazionale- Maurizio Leo ha nel suo dna autori della Beat Generation, ma anche la forza di Breton o Lautréamont. La sua è una sperimentazione plurisemantica, le sue poesie si vestono sempre di un ritmo sincopato, devastante. L’autore è anche redattore da oltre diciassette anni della rivista il ‘Bardo’, distribuita capillarmente e gratuitamente sul territorio, in librerie ed edicole, a Copertino, Lecce, Maglie, Galatina, Nardò, Gallipoli e Leverano.
Nella macchina di Neal tanto fumo dentro tanta nebbia fuori di Maurizio Leo
“Maurizio Leo scrive versi prestando ascolto a un’essenzialità feroce in cui si trovano tutti gli accenti di una realtà dismessa. Dal Salento di Salvatore Toma e Antonio Verri, Leo nella sua poesia cerca un lessico nudo in cui ogni cosa appare per quello che è. Nella macchina di Neal tanto fumo dentro tanta nebbia fuori ( i Quaderni del bardo edizioni) il poeta senza concedere nulla agli orpelli della lingua affonda la penna nel cuore trafitto del mondo e ne attraversa i paesaggi desolati, racconta senza filtri e abbellimenti la realtà scarna con le sue infinite pochezze. Le parole che sceglie per scrivere le sue poesie sono dirette, crude e hanno tutta l’intenzione di squartare e non di consolare (Nicola Vacca su Liberidiscrivere.com)
“Tutto quello che si vede è solo una figura. Sono figure superstiti quelle che guardano se stesse in questa poesia di Maurizio Leo che sfilaccia il Novecento e s’insinua nei sotterranei di questo secolo nuovo, di questo nuovo millennio. I paesaggi sono pozzanghere. Le creature immobili. Le storie contratte. Il lessico essenziale, strizzato come straccio, sorvegliato come se volesse, potesse sottrarsi, sfuggire alla trama, addirittura al pensiero.” (Dalla prefazione di Antonio Errico)
Ho dimenticato il cappotto di pannonero vecchio alla fermata del pesce
“Ho dimenticato il cappotto di pannonero vecchio alla fermata del pesce, ovvero dell’andamento discendente del verso nello sconfinamento nel nulla. È la tensione del vuoto come campo esperienziale che si rivela nella pratica di queste poesie di Maurizio Leo. Alla luce di un discorso antologico che ospita opere, che spaziano dalla poesia alla critica, dalla prosa poetica alla modulazione cronachistica, raccolte fra il settembre del 1991 e il maggio del 2015 sulla rivista Il Bardo, fondata dallo stesso Leo, occorre considerare come l’incasellamento delle parole produca e/o risponda ad un effetto di vuoto che permette l’allestimento della parola sulla pagina. Dare corpo e forma a questo vuoto, da una parte, lasciare che le parole ci sprofondino, dall’altra, è la condizione liminale di una poesia che passando dall’esperienza della Beat Generation americana percorre in lungo e in largo certe istanze, a questa sempre legate, tipiche del pensiero orientale – che va ad interessare appunto l’intelaiatura della parola – fino a modulazioni di matrice surrealista e, ancora, germinate in progress dalla poesia francese in un senso più ampio e nei cui territori l’autore sembra muoversi con disinvoltura. Maurizio Leo raccoglie a piene mani gli stimoli dei poeti Beat, dalle istanze culturali e quelle ritmiche, dalle geografie spazio-temporali a quelle esistenziali. L’incedere jazzistico della parola poetica, il ritmo incalzante del verso, una poetica fluidificata nell’automatismo del pensiero (di chiara discendenza surrealista, con riferimento puntuale a Breton) che aggira il blocco diurno della ragione e sposta l’asse dell’azione poetica su di un piano liminale, poi precoscienziale, che pare strizzare l’occhio agli strumenti offerti dal Kerouac teorico nei Fondamenti della prosa spontanea (1957). L’attenzione verso la sonorità della parola poetica affonda le proprie radici, in modo ampio e organico, nella letteratura francese. È secondo un percorso che dal “gergo nuovo” del Kerouac de I Sotterranei arriva dritto al verso asintattico surrealista, spostando e ampliando il raggio d’azione dalla letteratura americana alla tradizione francese. Delle successioni sillabiche, sconnesse, modulate nelle esperienze fonetiche del movimento Dada e poi ne I Sotterranei di Kerouac, Maurizio Leo conserva l’attenzione per la sonorità della parola letta fin nelle sue sillabe, senza sconfinare nel nonsense estremo, mantenendo viva e integra la parola. Questa è giocata nel verso come fosse un’isola, una costellazione di mondi che in diverse prove deriva dall’assenza di una consecutio logica volta a determinare una apertura di immagini eteroclite e plurivoche.” (dall’introduzione di Francesco Aprile)