IL GRANO AUSTRALIANO La celiachia? È un affare!
In tutto il mondo gli italiani vengono collegati con assoluta immediatezza con la pizza e gli spaghetti. Effettivamente non si tratta del solito luogo comune costruito per sminuire (con l’attiva collaborazione della intellighenzia di casa nostra) la nostra italianità ma di un effettivo vanto della nostra cucina e di una radicata abitudine alimentare imitata ed invidiata. E’ quanto riporta Canio Trione, vice direttore de Il Corriere Nazionale , quotidiano nazionale e internazionale on line edito a Bari (Italia).
Pure gli italiani sono sempre più “intolleranti” verso questo cibo. Si dice intolleranti non per dire che si snobbano i maccheroni ma che si hanno reazioni fisiche negative alle volte lievi ma anche gravi proprio a seguito della assunzione di pasta comunque condita. Fiorisce così una nuova industria di cibo privo di glutine e s’accresce il costo per il servizio sanitario nazionale. I numeri sono sempre più importanti e non si intravvede l’inversione di tendenza. Questa è la situazione già nota ai più.
Recentemente l’Associazione di Consumatori “Codici” ha condotto una breve consultazione presso i produttori per capire cosa sia cambiato nella produzione della pasta che possa avere causato tale situazione. Alcuni produttori si vantano di usare grani esteri, a loro dire, “pregiati” (e quindi più costosi di quelli italiani) provenienti niente di meno che dall’altra parte del globo (Australia e Americhe) che hanno il pregio di avere più glutine dei nostri; uso che è permesso dalla legislazione vigente nazionale ed europea generando così una situazione paradossale: si legifera non per la salute degli utenti ma per soddisfare le richieste delle aziende produttrici. Forse perché abituati da secoli a cibi con meno glutine, i consumatori subiscono malesseri fisici diffusi e spesso cronicizzati cui poi lo Stato stesso deve porre riparo con costi che sono evitabili, insostenibili e crescenti. Si creano situazioni paradossali di spaghetti realizzati con grani australiani o canadesi in stabilimenti magari albanesi ma con il nome di una ditta italiana venduti ai quattro angoli del globo a gente che crede si tratti di cibo italiano. O di gente che viene in Italia per gustare spaghetti italiani e gli propinano spaghetti australiani……. L’Italia non più garanzia di mangiar sano e buono ma ridotta al rango di un marchio di fabbrica utilizzabile da chiunque e dal quale ricavare il massimo profitto possibile. In tutto ciò l’occupazione è estera sia nella produzione della materia prima che nella realizzazione del prodotto finito.
Quale che sia la legislazione vigente in qualunque parte del globo è certo che l’acquirente che si accosta all’acquisto di pasta con marchio italiano è indotto in errore se non si precisa esplicitamente sulla confezione che il prodotto non è italiano se non nel nome del produttore e, forse, nel procedimento utilizzato per la realizzazione del prodotto finito. Torna alla mente la questione del prosciutto di Parma realizzato –si dice- almeno nel 90% del casi da carne estera ma venduto lasciando credere che sia italiano.
Ne fanno le spese i produttori italiani, i consumatori fregati che affollano gli ospedali, le casse pubbliche e la dignità della nostra cultura. E tutto per cosa? Per compiacere alcuni produttori che non vogliono prendersi il fastidio di fare una linea di prodotto tutto italiano!
Canio Trione
Staff di direzione Il Corriere Nazionale