L’ANGOLO DEDICATO AL LIBRO
“L’ISOLA DI ARTURO”, scritto da Elsa Morante nel 1957 e vincitore del Premio Strega nello stesso anno.
Arturo Gerace, è un ragazzino che vive nell’isola di Procida, la cui vita è segnata da un’assenza fondamentale: la figura materna. Infatti, la madre è morta dandolo alla luce. L’isola di Procida funge da nido, da grembo materno per Arturo, che vive, almeno per i primi anni della sua vita, in un isolamento sicuro, dolce e confortevole. Un isolamento in cui il ragazzino, aspettando quotidianamente il padre, si immerge e sogna avventure che un giorno lo porteranno lontano. Il padre di Arturo si chiama Wilhelm ed è un uomo che lui mitizza in modo eccessivo e che rivelerà degli aspetti imprevisti.
Un romanzo scritto in modo semplice, in cui il lettore facilmente riesce ad immergersi nei paesaggi e nelle vicende che sono descritte minuziosamente e realisticamente dall’autrice.
Dal libro nel 1962 è stato tratto l’omonimo film diretto da Damiano Damiani.
Di seguito un breve brano tratto dal libro: «Uno dei miei primi vanti era stato il mio nome. Avevo presto imparato (fu lui, mi sembra, il primo a informarmene) che Arturo è una stella: la luce più rapida e radiosa della figura di Boote, nel cielo boreale! E che inoltre questo nome fu portato pure da un re dell’antichità, comandante a una schiera di fedeli: i quali erano tutti eroi, come il loro re stesso, e dal loro re trattati alla pari, come fratelli.
Purtroppo, venni poi a sapere che questo celebre Arturo re di Bretagna non era storia certa, soltanto leggenda; e dunque, lo lasciai da parte per altri re più storici (secondo me, le leggende erano cose puerili). Ma un altro motivo, tuttavia, bastava lo stesso a dare, per me, un valore araldico al nome Arturo: e cioè, che a destinarmi questo nome (pur ignorandone, credo, i simboli titolati), era stata, così seppi, mia madre. La quale, in se stessa, non era altro che una femminella analfabeta; ma più che una sovrana, per me.
Di lei, in realtà, io ho sempre saputo poco, quasi niente: giacché essa è morta, all’età di nemmeno diciotto anni, nel momento stesso che io, suo primogenito, nascevo. E la sola immagine sua ch’io abbia mai conosciuta è stata un suo ritratto su cartolina. Figurina stinta, mediocre, e quasi larvale; ma adorazione fantastica di tutta la mia fanciullezza.
Il povero fotografo ambulante, cui si deve quest’unica sua immagine, l’ha ritratta ai primi mesi di gravidanza. Il suo corpo, pure fra le pieghe della veste ampia, lascia già riconoscere ch’è incinta; ed essa tiene le due manine intrecciate davanti, come per nascondersi, in una posa di timidezza e di pudore. È molto seria, e nei suoi occhi neri non si legge soltanto la sottomissione, ch’è solita in quasi tutte le nostre ragazze e sposette di paese; ma un’interrogazione stupefatta e lievemente spaurita. Come se, fra le comuni illusioni della maternità, essa già sospettasse il suo destino di morte, e d’ignoranza eterna».