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L’ANGOLO DEDICATO AL LIBRO

L’ANGOLO DEDICATO AL LIBRO

Furore di John Steinbeck:

Consigliamo questa settimana il romanzo Furore, scritto nel 1939 dallo statunitense John Steinbeck. Siamo nella metà degli anni trenta, la grande depressione americana è in atto, la famiglia Joad, assieme ad altre centinaia di famiglie, è costretta ad abbandonare la propria fattoria in Oklahoma e a tentare di emigrare in California. Tre generazioni su un camioncino sgangherato, nonni, genitori e figli. La California una terra promessa, almeno ciò che immaginano queste persone durante il lungo e faticoso viaggio.

Una denuncia sociale, una scrittura realistica a tratti lancinante e a tratti ironica. Una critica cruenta alla situazione degradante nella quale versavano le campagne colpite dalla crisi, un’analisi spietatamente oggettiva sui conflitti tra lavoratori stagionali e proprietari terrieri.

Un romanzo che rappresenta l’emblema della grande depressione americana. Una storia che, all’epoca, divise l’opinione pubblica in sostenitori e detrattori.

Nel 1940 il romanzo fu premiato con il premio Pulitzer e, probabilmente, ha aiutato anche Steinbeck ad ottenere il Premio Nobel per la letteratura nel 1962.

Una curiosità è che il romanzo, che attualmente leggiamo in Italia, è ancora la versione tradotta nel 1940 (il testo venne sottoposto ai tagli imposti dalla censura fascista). Al romanzo si è ispirato l’omonimo film, del 1940, diretto da John Ford, inoltre il famoso cantante Bruce Springsteen scrisse l’album “The Ghost of Tom Joad” ispirandosi al protagonista, Tom Joad, del libro.

Di seguito un breve brano tratto dal romanzo: «Nella regione rossa e in parte della regione grigia dell’Oklahoma le ultime piogge erano state benigne, e non avevano lasciato profonde incisioni sulla faccia della terra, già tutta solcata di cicatrici. Gli aratri avevano cancellato le superficiali impronte dei rivoletti di scolo. Le ultime piogge avevano fatto rialzare la testa al granturco e stabilito colonie d’erbacce e d’ortiche sulle prode dei fossi, così che il grigio e il rosso cupo cominciavano a scomparire sotto una coltre verdeggiante. Agli ultimi di maggio il cielo impallidì e perdette le nuvole che aveva ospitate per così lungo tempo al principio della primavera. Il sole prese a picchiare e continuò di giorno in giorno a picchiar sempre più sodo sul giovane granturco finché vide ingiallire gli orli d’ogni singola baionetta verde. Le nuvole tornarono, ma se ne andarono subito, e dopo qualche giorno non tentarono nemmeno più di ritornare. Le erbacce si vestirono d’un verde più scuro per mascherarsi alla vista, e smisero di moltiplicarsi. La terra si coprì d’una sottile crosta dura che impallidiva man mano che il cielo impallidiva, e risultava rosa nella regione rossa, bianca nella grigia.

Nei solchetti scavati dall’acqua la terra si sgretolò in rigagnoli di polvere minuta, tosto percorsi da innumerevoli processioni di formiche e formiconi. E sotto le sferzate ogni giorno più crudeli del sole le foglie del giovane granturco perdevano la loro baldanza e la loro durezza; s’inchinavano, dapprima, e poi, man mano che s’infiacchiva la loro colonna vertebrale, si prostravano. E venne il giugno, e il sole diventò selvaggio; le strisce brune, sulle foglie del granturco, si estesero dagli orli fino a toccare le colonne vertebrali. Le ortiche si sfrangiarono, si raggrinzirono, invecchiarono.

L’aria era afosa e il cielo più pallido e di giorno in giorno la terra incanutiva.

Sulle strade, mulinate dalle ruote dei carri e trebbiate dai ferri dei cavalli, la crosta della massicciata andò in frantumi e creò la polvere. Le minime cose animate sollevavano questa polvere per aria: gli uomini camminando sollevavano nuvolette che s’alzavano fino alla loro cintola; i carri, nuvole più dense che raggiungevano le cime delle siepi; le automobili, nuvoloni che oscuravano il sole. E a tutta questa polvere occorreva molto tempo per ricadere e posare.

Verso la metà di giugno le nuvole del cielo, alte, pesanti, gravide di pioggia, si mobilitarono nel Golfo ed iniziarono la loro marcia di invasione nel Texas. Gli uomini nei campi levavano gli occhi verso di esse e annusavano l’aria e rizzavano diti bagnati di saliva per ragguagliarsi sulla provenienza del vento. I cavalli diventavano inquieti. Le nuvole passando lasciarono precipitare parte del loro carico e s’affrettarono ad invadere altre contrade, lasciandosi alle spalle il cielo pallido come prima e il sole feroce, e nella polvere crateri pieni d’acqua, e nei campi di granturco chiazze rinverdite.

Passate le nuvole arrivò un venticello che, sospingendole verso settentrione, faceva mormorar sommesso il granturco annaffiato. Passò un giorno e il vento aumentò d’intensità e di costanza. La polvere s’alzò dalle strade e coprì le ortiche dei fossi e si spinse anche addentro nei campi di granturco. Il vento si fece impetuoso e si accanì nel rodere la crosta lasciata dall’acqua nei campi.

A poco a poco il cielo si oscurò, per i turbini di polvere che il vento sprigionava dalla terra e trascinava via. Il vento si fece più impetuoso e sbriciolò la crosta formata dalla pioggia e la polvere turbinò per i campi trascinando nell’aria piume grigiastre, come spirali di fumo. Il granturco, flagellato dal vento, emetteva suoni secchi, rovinosi. La polvere impalpabile non ricadeva ormai più sulla terra, ora, ma si disperdeva nell’oscurità del cielo»

redazione.lecceoggi@gmail.com

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