LE DONNE NELLA STORIA: MATA HARI
MATA HARI, pseudonimo di Margaretha Geertruida Zelle (Leeuwarden, 7 agosto 1876 – Vincennes, 15 ottobre 1917) Segue da venerdì 24 giugno 2022
Il matrimonio non durò a lungo ed i coniugi dopo un breve tentativo di riconciliazione si separarono definitivamente; con il padre che ottenne la custodia della figlioletta, mentre Margaretha si stabilì dallo zio a L’Aia.
L’anno successivo, marzo 1903, decisa a tentare l’avventura della grande città, Margaretha andò a Parigi, dove pure non conosceva nessuno: cercò di mantenersi facendo la modella presso un pittore e cercando scritture nei teatri, ma con risultati deludenti.
Il fallimento dei suoi tentativi la convinse a riparare nei Paesi Bassi, ma l’anno seguente, il 24 marzo 1904, tornò nuovamente a Parigi e prese alloggio al Grand Hotel, divenendo l’amante del barone Henri de Marguérie.
Presentatasi dal signor Molier, proprietario di un’importante scuola di equitazione e di un circo, Margaretha, che in effetti aveva imparato a cavalcare a Giava, si offrì di lavorare e, poiché un’amazzone può essere un’attrazione, fu accettata. Ebbe successo e una sera si esibì durante una festa in casa del Molier in una danza giavanese, o qualcosa che sembrava somigliarle: Molier rimase entusiasta di lei. La sua danza era, a suo dire, quella delle sacerdotesse del dio orientale Shiva, che mimavano un approccio amoroso verso la divinità, fino a spogliarsi, un velo dopo l’altro, del tutto, o quasi.
Il suo vero esordio avvenne nel febbraio 1905 in casa della cantante Kiréevsky, che usava invitare i suoi ricchi amici e conoscenti a spettacoli di beneficenza. Il successo fu tale che i giornali arrivano a parlarne: lady Mac Leod, come ora si faceva chiamare, replicò il successo in altre esibizioni, ancora tenute in case private, dove più facilmente poteva togliersi i veli del suo costume, e la sua fama di «danzatrice venuta dall’Oriente» incominciò a estendersi per tutta Parigi.
Notata da monsieur Guimet, industriale e collezionista di oggetti d’arte orientali, ricevette da questi la proposta di esibirsi in place de Jéna, nel museo dove egli custodiva i suoi preziosi reperti, come un animato gioiello orientale. Era però necessario cambiare il suo nome, troppo borghese ed europeo: così Guimet scelse il nome, d’origine malese, di Mata Hari, letteralmente «Occhio dell’Alba» e quindi “Sole”.
L’esibizione di Mata Hari nel museo Guimet ebbe luogo il 13 marzo.
Mata Hari alternò le esibizioni, tenute nelle case esclusive di aristocratici e finanzieri, agli spettacoli nei locali prestigiosi di Parigi: al Theatre Marigny, al Trocadéro, al Café des Nations.
Mata Hari appariva vestita con sottili veli traslucidi dei quali si spogliava uno dopo l’altro durante l’esibizione, finché non le rimanevano solo i gioielli orientali che portava e, talvolta, una maglia dello stesso colore della sua pelle; sebbene il suo numero consistesse nello spogliarsi lentamente, lei non mostrò mai il seno nudo, perché la imbarazzava. Affermò anche che suo marito le aveva strappato i capezzoli in un impeto di gelosia, ma si trattava di una bugia. La verità è che le cupole di bronzo ingioiellate che mascheravano i suoi seni durante i suoi spettacoli dovevano nascondere le loro dimensioni minuscole.
Il successo provocò naturalmente una curiosità cui ella non poté sottrarsi e dovette far collimare l’immagine privata con quella pubblica, mescolando poche verità e molte menzogne: «Sono nata a Giava e vi ho vissuto per anni» – raccontò ai giornalisti, – «sono entrata, a rischio della vita, nei templi segreti dell’India, ho assistito alle esibizioni delle danzatrici sacre davanti ai simulacri più esclusivi di Shiva, Visnù e della dea Kālī persino i sacerdoti fanatici che sorvegliano l’ara d’oro, sacra al più terribile degli dei, mi hanno creduto una bajadera del tempio la vendetta dei sacerdoti buddisti per chi profana i riti è terribile conosco bene il Gange, Benares, ho sangue indù nelle vene».
Ottavia Luciani
Fine seconda parte